Torna in scena La Merda (aspettando il film)

28 febbraio 2019

Dopo aver vinto il Fringe Festival di Edinburgo nel 2012, e dopo sette anni di repliche in giro tra teatri e festival di tutto il mondo, La Merda, vero e proprio fenomeno teatrale italiano, diventa anche un film. Da maggio 2017, infatti, è in lavorazione il progetto cinematografico dell’opera teatrale scritta da Cristian Ceresoli, che ha sbancato botteghini e premi teatrali di mezzo mondo ed è stata già tradotta in inglese, greco, danese, ceco, spagnolo, gallego, portoghese brasiliano, norvegese, svedese e francese e rappresentata in altre versioni da registi e attori stranieri. Aspettando di vederlo sul grande schermo, Bologna offre una buona occasione per assistere (o rivedere) a uno spettacolo diventato ormai cult. Il solo scritto da Ceresoli, che vede in scena una pluripremiata Silvia Gallerano, volto amato tanto dai registi teatrali che cinematografici, il 7 marzo alle 21 ritorna infatti sul palcoscenico a Teatro Duse, per poi essere in scena a Parma, il 9 marzo, al Teatro del Cerchio.

La pièce ha la forma di un monologo: in una scena vuota, su un trespolo illuminato da una luce fredda, siede un’attrice, completamente nuda, con la bocca rosso fuoco, che ostentando tutta la sua vulnerabilità vomita l’orrore degli innumerevoli pregiudizi che la opprimono, e trascina il pubblico in una brutale confidenza intima, un poetico e violento flusso di coscienza sulla condizione umana. La Gallerano infatti, che “The Guardian” ha definito “Straordinaria, sublime e da strapparti la pelle di dosso” e che proprio con La Merda ha vinto il premio The Stage 2012 for Acting Excellence, racconta con una bulimica invettiva verbale il tentativo di una giovane donna che ha perso il padre, con una madre inadeguata e le cosce “troppo grasse”, di farsi varco in una società ricolma di fango, maschilismo, buonismo, crudeltà e ignavia –  di merda, appunto – in cui a contare, se si vuole ottenere qualcosa, sono appunto sempre e solo “le cosce”. Un monologo, flusso di coscienza privato, che scagliato contro gli spettatori, nello spazio corale del teatro, diventa immediatamente coscienza comune dello squallore in cui secondo l’autore siamo immersi e di cui siamo in qualche modo complici e vittime allo stesso tempo, una testimonianza del terribile compimento del “genocidio culturale” a cui la società dei consumi, profetizzava Pasolini, avrebbe inevitabilmente portato nel giro di pochi anni. Al pubblico la scelta di riconoscersi o meno nel tragico, disturbante ritratto.